Giuseppe Nastasi
"Natura! Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia. E' intera e, nondimeno, sempre incompiuta. Non conosce passato e futuro; il presente è la sua eternità".
Così un intellettuale del calibro di Wolfgang Goethe intende la natura: come una forma di vita che, nella sua straordinaria potenza, crea eternamente incarnando la forza stessa del Divino. Il pensatore tedesco, contrapponendosi alla razionalizzazione della cultura e del vivere umano, sente insita nella bellezza del creato la presenza di uno Spirito e di una Forza sovrasensibili, che introducono la loro infinità nella finitudine umana.
Durante la sua esistenza, infatti, l'uomo ha sempre trovato nella natura la soddisfazione di ogni suo bisogno, sia fisico che spirituale. Dunque è facendo esperienza del creato che l'individuo percepisce il suo "alter ego", qualcosa che lo completa e lo rende consapevole della sua identità e della sua piccolezza in rapporto all'Universo.
Se osserviamo il rapporto tra uomo e natura nel corso del tempo, notiamo diversi modi di approcciarsi. Prendendo in analisi l'epoca medievale, in cui persiste la centralità di Dio nella vita dell'uomo, la natura diventa immagine vivente del Creatore, che, spinto dall'amore per le sue creature, la mette al servizio dell'umanità manifestando la potenza del suo eterno disegno. Questa tendenza emerge grandemente da Il cantico di Frate Sole di san Francesco d'Assisi. Nella sua lode, manifesto dell'etica francescana, il frate, piccolo nel mondo ma grande nell'umiltà, elogia il creato nella sua totalità, sia per le gioie che per i dolori che da esso provengono. Il sole, la luna e le stelle, da una parte, il vento, il fuoco e l'acqua, dall'altra, sono il mezzo attraverso il quale l'Altissimo rende viva la sua presenza nel mondo e dà "sustentamento a le sue creature" (cfr. verso 14).
La natura, vista l'incessante presenza di Dio, sembra assumere dunque un significato allegorico, che si rispecchia a pieno anche nelle tematiche affrontate dal più grande poeta italiano: Dante Alighieri. Durante il suo viaggio nei tre Regni dell'Oltretomba, il sommo poeta si imbatte in paesaggi nuovi e in imponenti visioni celestiali, che sfuggono a qualsiasi spiegazione scientifica. Infatti, nel I canto del Purgatorio, Dante, pur non essendo a conoscenza delle nuove scoperte astronomiche, descrive, nella maniera più chiara possibile, un cielo primaverile insieme alle sue costellazioni, infondendo in ogni elemento descritto un profondo significato simbolico. Tuttavia, la bellezza della natura è tale da poter essere accolta soltanto da uno spirito nobile e puro. Per questo motivo il cielo australe, allietato dalle luci di Venere, della costellazione dei Pesci e della Croce del Sud, si sottrae alla vista dell'emisfero boreale ("settentrional vedovo sito", cfr. Purgatorio I, verso 26), che per la sua colpa, non riesce a vedere queste meraviglie ("poi che privato se' di mirar quelle", cfr. Purgatorio I, verso 27).
Se,tuttavia, nella sfera religiosa la natura rappresenta l'amore ineffabile di Dio, in una rilettura più laica e umana diventa il riflesso dei sentimenti individuali. Questa tendenza è riscontrabile nella lirica provenzale e nella letteratura del Basso Medioevo. In questo tempo, infatti, nasce l'ideologia dell'amor cortese, che consiste nel provare un amore di tipo platonico - e quindi ben lontano da quello passionale - nei confronti di una dama di corte, la quale, essendo già sposata, non ricambia l'attenzione dei poeti. Dal momento che la donna amata è estranea all'amore che le viene rivolto con tanta devozione, il poeta cerca conforto nel mondo che lo circonda, così da riuscire a trovarlo nel contemplare il paesaggio naturale. Tutti questi elementi sono magistralmente sintetizzati nelle liriche in lingua d'oc del trovatore provenzale Bernart de Ventadorn.
Nella poesia Quando erba nuova e nuova foglia nasce, il paesaggio, che si prepara ad accogliere l'arrivo della stagione primaverile, produce nell'animo del poeta una gioia tale da accrescere il suo sentimento e la sua devozione per la sua "madonna". Alla luce dei canoni dell'amor cortese, questo sentimento è già abbastanza per il poeta tanto che non osa chiedere nulla di più, poiché "madonna", nonostante conosco il dissidio del povero amante, non merita alcun rimprovero per il suo totale disinteresse ("perché a lei non ne venga biasimo", cfr. " Quando erba nuova...", verso 16).
Dunque l'arrivo della primavera, grazie al quale i prati si colorano di fiori e il cielo si rasserena, si unisce al risveglio dei sentimenti d'amore di tutte le creature, come viene ulteriormente sottolineato dal grande poeta Francesco Petrarca nella lirica CCCX del Canzoniere Zephiro torna, e 'l bel tempo rimena. La splendida descrizione paesaggistica, tanto vicina a quella di Ventadorn, non richiama più la gioia di amare la propria donna, ma si contrappone al forte dissidio interiore del poeta. Da questi versi, infatti, emerge che Laura è già morta e, insieme alla sua solare bellezza e alla sua giovinezza, sono scomparse anche le chiavi del cuore di Petrarca, che non riesce ad accogliere il risveglio primaverile. L'indifferenza del poeta nei confronti del paesaggio naturale lo allontana dal raggiungimento della catarsi e la natura, che in questo caso è contrapposta alle pene d'amore, non sembra dare alcun conforto, pur rimanendo ugualmente un elemento essenziale nella poetica di Petrarca. Non a caso, prendendo in esame altre liriche scritte in seguito alla morte dell'amata, come "Chiare, fresche et dolci acque" o "Già fiammeggiava l'amorosa stella", si evince che la natura con la sua "quieta armonia" permette al poeta di sentire la presenza viva di Laura e di raggiungere, attraverso l'ascesi spirituale, la completa purificazione dal male dell'accidia.
Mentre Francesco Petrarca e Bernart de Ventadorn riescono a soddisfare le loro mancanze spirituali contemplando la natura Giacomo Leopardi, considerato uno dei massimi esponenti del Romanticismo, non considera il creato come rifugio e come conforto, ma come una trappola. Celebri sono i versi dell'idillio 1820 La Sera del dì di festa, nei quali la natura personificata si presenta come una "matrigna" che crea l'uomo solo per farlo soffrire e per privarlo della speranza, cosa che non permetterà ai suoi occhi di brillare si gioia, ma di pianto. Tuttavia, il poeta non ha tenuto conto che, attraverso il suo sguardo disincantato e il suo difficile rapporto con il contingente, non riesce a farci odiare la natura, ma piuttosto ce la fa amare. Infatti, al dolore corrisponde sempre il desiderio d'amare, alla rottura con la natura corrisponde l'anelito di infinito, che parte da ciò che ci circonda, e ad ogni notte corrisponde sempre un giorno di luce.
La natura, dunque, nonostante le afflizioni e i problemi della vita, continua ad essere conforto e sostentamento per l'umanità. Inoltre, pur non comprendendo le cause che la determinano, si ha la certezza che tutto avviene per un desiderio e che tutto termina nella pace e l'uomo, assistendo impassibile alla magnificenza del creato, raggiunge la piena consapevolezza del suo essere: un piccolo attimo nell'eterno divenire della natura.