mercoledì 7 maggio 2014

L'amore che uccide

 
di
Maria Elena Cambria 
Valeria Devardo 
Ylenia Calogero

Femminicidio: violenza estrema da parte dell'uomo contro la donna. Così venne definito per la prima volta, dalla messicana Marcela Legarde, l'atto brutale con cui si spegne la vita di una compagna, una madre, una moglie, una fidanzata, una sorella, una figlia. Una donna. Privata prima della libertà di scegliere e infine cancellata per sempre dall'uomo che, nella maggior parte dei casi, dice di amarla.
A livello mondiale la diffusione di questo fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti. I dati statistici del 2013 registrano 177 vittime all'anno, tendenza purtroppo confermata anche nei primi mesi del 2014. L’autore del femminicidio è nel 48% dei casi il marito, nel 12% il convivente, nel 23% l’ex. Nel 61% dei casi si tratta di un uomo tra i 35 e i 54 anni; generalmente il persecutore non fa uso di alcool e di sostanze stupefacenti. 
Le donne muoiono principalmente per mano dei loro mariti, ex-mariti, padri, fratelli, fidanzati o amanti, innamorati respinti. Insomma per mano di uomini che avrebbero dovuto rappresentare, per loro, una sicurezza. Gli omicidi basati sul genere si manifestano in forme diverse, ma ciò che li accomuna, nella maggior parte dei casi, è proprio l’uccisione a seguito di una violenza subita, giorno dopo giorno, nell’ambito di una relazione intima.  
Lo scorso 17 marzo abbiamo assistito alla storia tremenda di un uomo di 53 anni che ha scatenato la propria furia contro la moglie, uccidendola con un martello di fronte ai figli, due gemelli di 9 anni, che hanno provato a fermare il padre in questi attimi di follia e sono ancora sotto choc. Per lui, che non aveva accettato la separazione, la frase “Hai bisogno di una doccia” suonava come un'offesa. "Lei mi umiliava", avrebbe detto l'uomo durante l'interrogatorio. Ma il suo racconto è stato pieno di "non ricordo" e le indagini sono ancora in corso. 


Le cronache nazionali, e non, sono purtroppo piene storie di sangue come questa, in cui l’amore e il rispetto dell'uomo verso la figura femminile cessano e lasciano il posto a episodi di violenza inaudita, che è difficile da comprendere e spiegare. Una nazione come la nostra, che fino al 1946 non ha permesso alle donne di votare e fino agli anni 60 di poter entrare in magistratura, oggi subisce le estreme conseguenze di questa mentalità: la donna è un essere inferiore e per questo va dominata. Ci ritroviamo così di fronte a matrimoni combinati dalle famiglie per tutelare il "clan", di fronte alle cosiddette “spose bambine” di molti paesi stranieri, di fronte alle innumerevoli donne picchiate, umiliate, maltrattate e infine uccise, anche nella "civilissima" Italia. 
La domanda però sorge spontanea: che assistenza viene data a queste donne? Che sorveglianza viene riservata? Qualcuno le aiuta? Queste domande forse non troveranno risposta, ma sono l'amara testimonianza di come la "giustizia" rischia di essere qualcosa di relativo, applicata poco e male quando serve. Ci sono casi che, fortunatamente, non sfociano in un finale drammatico, ma tante altre volte non è così e chissà quante donne non hanno il coraggio di denunciare un uomo violento, temendo di ritrovarsi sole ed indifese. 
Questa situazione logora mentalmente moltissime donne che si sentono abbandonate da tutti e schiave del proprio uomo; potrebbero denunciare ma non lo fanno perché hanno paura. Il dolore fisico è grande, ma mai come quello dell’anima violentata e distrutta, come i sogni di ogni donna innamorata.

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