Commento personale all’intervista ad
Andrea Camilleri “ il maestro senza regole”
Sara Fontanelli III B Liceo Classico
“Io sempre mi diverto a scrivere. Se la scrittura deve
degenerare in lavoro io non scrivo più. Il mio ideale è la trapezista, bella, sorridente,
che fa il triplo salto mortale col sorriso sulle labbra e non ti fa vedere la
fatica bestiale dell’allenamento”. Un approccio alla scrittura sereno,
spontaneo, quello di Andrea Camilleri che, ispirandosi alla figura della
trapezista, durante il suo “numero” lascia al lettore un godimento totale,
mascherando l’innegabile sforzo della scrittura. Dall’intervista “Il maestro
senza regole” condotta da Teresa Mannino emergono tutti i retroscena dei
capolavori di Camilleri, le sfumature di una personalità forte, con un alto
senso dell’etica e una rara bontà, e il suo personale bagaglio di emozioni e
ricordi, che non sempre nei romanzi vengono proiettati nella loro interezza.
Anche al più disilluso, distante, restìo a farsi coinvolgere Camilleri comunica
qualcosa con le sue parole, forse perché, come ha detto lui stesso alla
presentazione del suo libro “Inseguendo un’ombra”, gli piace “squitare u cani
ca dormi”, raccontare chi si nasconde. Ho notato in lui una capacità di
coinvolgimento e una profondità nel raccontare riscontrata in pochi. Resto
ancora insoddisfatta dal suo stile di scrittura, zeppo di sicilianismi e per me
poco fluido, sicuramente diretto, incisivo, forte, ma che, in una
rappresentazione troppo nitida della realtà, non mi trasmette alcuna
suggestione. Ma il maestro di vita che nell’intervista ha trasmesso importanti
verità ai miei occhi non deve coincidere con il Camilleri de “Il birraio di
Preston”, ho scisso la figura dello scrittore, che forse non ho ancora la
maturità di apprezzare, da quella umana, che non ha potuto fare a meno di
emozionarmi. Mi ha segnato in particolare il ricordo del professore di liceo
che, non volendo sottostare ai barbari dettami fascisti, copriva col cappotto
la divisa nera, dando un esempio di libertà e rivoluzione individuale, la
lezione sul rispetto e la vera virilità in risposta ad uno scherzo sadico della
classe, il commovente ricordo della morte del padre, la promessa di dar forma
al bozzetto letterario che gli si stava delineando in mente, rigorosamente in
siciliano. Camilleri, dietro una scorza che di primo acchito sembra impossibile
da perforare, dimostra una giovinezza eterna, una mentalità aperta, non
irrigidita e ammuffita dagli anni, e una sensibilità che è quella propria di
ogni artista. “Il cane non morde” dice la Mannino dopo il primo incontro, e
riconosce a Camilleri una grande avvenenza, una capacità sempre viva di
sedurre. E ha colpito anche noi giovani, il maestro senza regole, ha sedotto
tutti.
“La gita a Tindari”
di Andrea Camilleri
Il commissario Montalbano si trova alle prese con l’omicidio del
giovane Nenè Sanfilippo e la scomparsa di due anziani coniugi, i Griffo.
Entrambi i fatti si sono verificati nel medesimo appartamento, a Vigàta, e il
commissario ricerca il nesso. I Griffo sono stati visti per l’ultima volta a
una gita a Tindari con una comitiva di anziani e da un’accurata inchiesta
emerge che i due erano seguiti a distanza da un individuo a loro legato da
particolari interessi: Nenè Sanfilippo. Si scopre poi, attraverso una raccolta
online di fantasie erotiche, che lo stesso Nenè ha una relazione con la moglie
di Eugenio Isgrò, chirurgo di fama mondiale coinvolto in un grosso traffico
illegale di organi gestito dalla “nuova mafia”. In questo scenario si inserisce
la famiglia mafiosa dei Sinagra: Don Balduccio commissiona l’omicidio del
nipote Japichinu che è entrato in rapporti con la nuova mafia. Intanto i Griffo
hanno venduto a Nenè Sanfilippo una cascina, di cui si servirà la banda
capeggiata da Japichinu per il controllo del traffico di organi, di droga e
della pornografia online internazionale. Non appena i traffici illeciti
minacciano di essere sventati, la nuova mafia elimina gli individui ad essi
riconducibili: i Griffo, proprietari della cascina, e Nenè Sanfilippo.
La vicenda
si presume si svolga ai giorni nostri, non sono presenti indicatori temporali; è
ambientata per la maggior parte a Vigàta, città inesistente ma che presenta le
caratteristiche di una tipica città siciliana. Si tratta probabilmente della
trasfigurazione letteraria di Porto Empedocle, che ha dato i natali all’autore.
Essa assume una realtà, una tangibilità, appena ne vengono descritte le strade,
le case: lo stesso appartamento dei Griffo con “le finestre chiuse, il letto
arrifatto, la cucina arrizzittata” sembra quasi visibile. L’inchiesta si sposta
poi a Tindari, descritta dall’autore come “un promontorio a picco sul mare, col
piccolo, misterioso teatro greco e la spiaggia a forma di una mano con le dita
di rosa” e vengono riportate le tappe del percorso panoramico svolto dalla
compagnia di anziani durante la gita, nodo centrale del caso. Luogo che compare
con frequenza è il commissariato, di cui non sono presenti descrizioni
dettagliate: si pensa comunque ad un ambiente austero. La vicenda ritorna infine
a Vigàta, prima in un luogo reale interno come la cascina di Nenè Sanfilippo,
ambiente degradato e losco, poi nella dimora monumentale del boss Balduccio,
Villa Sinagra, “di noce nìvura, con borchie di rame, vagamente ricordava un
tabbuto di gusto americano”, ambiente che trasuda potenza e sfarzo.
Il ritmo
narrativo è in equilibrio: troviamo infatti una giusta alternanza di sequenze
narrative, descrittive e dialogiche. La frequenza dei dialoghi rende il romanzo
scorrevole e al tempo stesso d’impatto. Il dialetto, che ostacola una
comprensione immediata, è l’unico fattore di intralcio e rallentamento. La
narrazione è ad intreccio per la presenza di analessi (flashback) che non
vengono esplicitate ma hanno luogo nella mente del commissario per la
ricostruzione dei fatti.
La voce narrante è interna in quanto il punto di vista del
lettore coincide con quello del protagonista: ogni vicenda è filtrata dalla sua
prospettiva; il lettore viene a conoscenza degli indizi solo seguendo le tappe
dell’inchiesta, quindi formula con Montalbano, servendosi del punto di vista di
Montalbano, le proprie intuizioni: non ha altri scorci che non siano quelli
offerti dalle scoperte e dai ragionamenti di Montalbano, i due punti di vista
coincidono.
Protagonista di tutte le
inchieste è il commissario Montalbano. In “La gita a Tindari” non viene
descritto fisicamente, ma si definisce per i suoi tratti caratteriali: ironico,
spesso impulsivo, estremamente acuto e intuitivo, con un alto senso etico e un
innegabile attaccamento ai piaceri materiali del fumo, della donna e della
buona cucina. Porta avanti l’inchiesta con intelligenza e accortezza, non perde
la fedeltà ai suoi principi morali in presenza dei potenti, difende le persone
a cui tiene da situazioni insidiose. Personaggi di rilievo sono Mimì Augello,
braccio destro del commissario e infallibile don Giovanni, che proprio in
questo romanzo conquista Beatrice; l’ispettore Fazio; Catarella, figura comica
della situazione: impacciato, goffo, comprende spesso gli ordini in modo
errato, riporta quanto gli viene comunicato con gravi sgrammaticature e
sicilianismi; i coniugi Griffo, due anziani molto miti e solitari, mero
strumento della macchina mafiosa; Nenè Sanfilippo, ventenne dissoluto che
controlla la pornografia online internazionale e i principali traffici di
droga; Japichinu, nipote di Don Balduccio, “disonore” della famiglia Sinagra
perché parte attiva della nuova mafia; il boss mafioso Don Balduccio e il
trapiantista Eugenio Isgrò, coinvolto in un enorme traffico illegale di organi.
La tematica prevalente è quella sociale: l’intreccio mafioso non
è che un espediente per rappresentare la mentalità meridionale. La vicenda
della scomparsa prima e dell’uccisione poi di persone legate all’intrigo
mafioso evidenzia lo sfruttamento e la strumentalizzazione dei membri
dell’organizzazione stessa, che sono solo aggeggi di un marchingegno, quello
degli interessi capitalistici. È l’eterno ruotare attorno a un interesse a
svilire l’uomo nella sua dignità e a fare del mafioso un individuo dagli
atteggiamenti inumani: è quello che vediamo in Don Balduccio Sinagra, personaggio
che illude il lettore e ne ribalta per un istante le aspettative. Il boss
sembra essersi pentito del suo operato, aver riconosciuto la viltà del mafioso
“che spara a cu non si ‘nginocchia picchì
non avi altra strata” ed esser disposto a una collaborazione col
commissario, ma emerge ben presto che è lui ad aver macchinato l’omicidio del
nipote e altri gravi intrighi. Si pone quindi l’accento sul degrado del sistema
e su come esso si sia esteso a macchia d’olio, abbia corrotto tutte le menti
corruttibili e sia diventato una piaga internazionale, seppur sotterranea.
Ho apprezzato questo romanzo poco a poco, passando da un
iniziale scetticismo a un parziale coinvolgimento. È un libro che ha il potere
di creare una spirale, un crescendo di suspense; un libro che si legge d’un
fiato e che è in grado di appassionare. Ho incontrato non pochi ostacoli nel
cimentarmi con questo autore: uno stile a primo approccio poco scorrevole, un
dialetto di difficile comprensione, tematiche già visitate e di certo non
originali, ma “La gita a Tindari” presenta un intreccio narrativo particolare,
che attira gradualmente, e porta il lettore ad immedesimarsi in qualsiasi
personaggio. Mi hanno molto colpita le descrizioni, così minuziose e sentite
dall’autore da risultare reali e tangibili, così come l’ironia celata in alcune
situazioni e dialoghi (non solo, come si tende a pensare, nelle “sguaiate”
battute di Catarella). Parlo di coinvolgimento parziale perché mentre Camilleri
a livello personale, umano, mi sembra possedere un enorme bagaglio di
esperienze, una sensibilità rara, un animo elevato,
al contrario la sua letteratura non mi ha lasciato niente di profondo. Rimane
uno stile lontano dalle mie corde che, a mio avviso, manca di qualsiasi
raffinatezza e suggestione.
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